Qualche giorno fa, con Marta, siamo state al Museo della femmina Agabbadora a Luras. Il Museo Galluras – dall’unione di Gallura e Luras – si trova al centro storico di questo bel paesino e nasce grazie a Pier Giacomo Pala che fin dall’infanzia, si appassiona di antichi cimeli ed inizia a collezionarli. Ne colleziona così tanti che il 17 giugno del 1996 nasce il Museo della Femmina Agabbadora. È un palazzetto sede un tempo della caserma dei carabinieri, con un grazioso cortile interno e una decina di stanze disposte su tre piani.
Il Museo
Si entra dall’antica cantina, in cui potrete ammirare il primo prototipo di cavatappi a forma di Feluca, in omaggio a Napoleone, e un’antica bottiglia di Nebiolo del 1891 tra le altre numerose da collezione e un bellissimo torchio antico.
Nella stanza che un tempo era la stalla dei cavalli dei carabinieri, oggi troviamo tutti gli arnesi e gli attrezzi per la lavorazione e trasformazione del grano e del latte. Decine di forconi, le misure, due antiche selle inglesi coi ganci per il trasporto.
Passando per il cortile in cui ammiriamo un antico carro ermetico usato per il trasporto della farina, arriviamo al secondo piano, in cui sono stati adibiti il salotto col focolare, gli antichi pani con cui si prepara la zuppa gallurese, le cartelle dei bimbi per la scuola e un armadietto con tantissimi farmaci e unguenti.
Troviamo poi la cucina, con un bellissimo set da caffetteria in ferro smaltato nero e come nuovo, i maccarrones de busa fatti in casa (pasta tipica gallurese) e un antico mobile che mi ha colpito in particolar modo perchè veniva fatto costruire su misura dell’altezza della padrona di casa, in modo che potesse poggiarci sopra e facilmente la brocca con l’acqua raccolta alla fonte.
Poi, nell’ultima stanza la vediamo: accanto al letto e tutta vestita di nero, col volto coperto e lu cenciu, l’antico copricapo gallurese: la figura attorno alla quale Pier Giacomo ha costruito tutto il Museo.
L’agabbadora
Ci racconta: “Un anziano amico di Luras, mi raccontò che da bambino aveva sentito raccontare dal nonno di una donna che si occupava di porre fine alle sofferenze dei malati terminali, colpendoli alla testa con un martello in legno. Quella donna aveva vissuto in uno stazzu (casa della campagna gallurese) – stazzo – di Luras. Da quel momento cominciai a interrogare gli anziani di Luras, ma sembrava che nessuno sapesse niente. In realtà sapevano eccome, ma non se ne parlava perché farlo avrebbe comportato l’ essere testimoni o complici di un omicidio”.
Dallo spagnolo vamos acabar, andiamo a terminare, l’agabbadora era una donna che, su richiesta dei parenti, metteva fine alle atroci sofferenze di malati terminali irreversibili, talvolta solo una “bocca in più da sfamare che non produceva più”. Eticamente sa agabbadora non ammazzava, ma poneva fine alle sofferenze. È una pratica antichissima, che si pensa risalga al prenuragico ed era una soluzione libera e naturale, poiché a quei tempi vi erano giunti senza essere condizionati dalle istituzioni. La Chiesa ha accettato questo, così come altri riti pagani: fingeva di non sapere, poiché cercava di assecondare le necessità del popolo per avere più fedeli possibile.
La ricerca di Pier Giacomo, l’ha portato a rintracciare soltanto a Luras, in Gallura (nord-est Sardegna), ben 10 donne che praticavano la missione di “finitrici”, risalenti al periodo che va dalla metà dell’Ottocento ai primi anni Settanta del Novecento. Sa Agabbadora ricopriva anche il ruolo di mastra de paltu, levatrice, aiutava anche a nascere e a guarire. Colei che stava tra la vita e la morte. Prosegue: “Scoprire dove queste donne avessero abitato non è stato semplice, poiché molte delle case erano state ristrutturate o demolite: dopo 12 anni di ricerche, nel 1993, un giorno notai che in una dimora di cui mi aveva parlato il mio anziano amico, stavano demolendo dei muretti a secco. Mi avvicinai sconsolato, perché un altro pezzo di memoria scompariva, visto che quei muretti risalivano alle chiudende emanate nel 1820. Era la pausa pranzo, gli operai non c’erano e osservai che una delle pietre in granito del muretto differiva dalle altre: era rettangolare, tenuta da un cuneo nella parte alta. Incuriosito tirai il cuneo, la pietra cadde e nella nicchia che chiudeva, vidi il martello: lo presi e scappai. Solo dopo una decina di minuti mi resi conto di quel che si era realizzato, la conferma alla mia lunga ricerca.” Fu il primo martello ritrovato, l’unico e solo al mondo, riconosciuto.
Il Mazzolu
Oltre al mazzolu, presso il museo c’è un raro modellino di giogo (serviva per collegare i due buoi tra di loro) che ha almeno 150 anni, a giudicare dalla lavorazione del legno. Il giogo era ritenuto un oggetto sacro che nessuno poteva distruggere, per il significato che rivestiva: lavoro, grano, farina, pane. Secondo la credenza popolare, chi lo avesse fatto, avrebbe distrutto la vita e ciò gli avrebbe causato una morte di stenti. Il modellino veniva collocato sotto il cuscino del malato per tre giorni e tre notti: se il malato moriva, voleva dire che aveva distrutto un giogo, che però lo aveva liberato. Se invece non moriva, significava che il suo stato terminale era naturale e si era autorizzati a chiamare l’agabbadora.
Il mazzolu di olivastro a forma di martello è esclusivo della Gallura, mentre in altri paesi sardi è un semplice bastone chiamato mazzuccu o mazzocca. Una testimonianza raccolta a Cuglieri (centro Sardegna), parla di un oggetto che aveva la forma di un grosso pestello di circa 40 cm. A forma di martello lo ritroviamo in Francia, dove veniva chiamato il “martello benedetto” e conservato nelle chiese, a testimonianza di come la Chiesa francese riconoscesse e tollerasse la pratica della “buona morte”. A conferma di ciò, alcuni studiosi del Settecento e dell’Ottocento, sostengono che a utilizzare il martello, fossero proprio i preti.
Nella stessa stanza vediamo un’antica culla incisa, donata dall’ultimo Re D’Italia Umberto II a tutti i bimbi nati dello stesso giorno di suo figlio, degli antichi amuleti contro malocchio e qualcosa che ha attirato la mia attenzione: due autentiche bambole voodoo.
Ci sono altre due stanze da vistare, una dedicata all’arte della tessitura con un magnifico telaio, l’altra alla materia prima della Gallura: il sughero. Nell’ ultima stanza potrete ammirare infatti tutti gli arnesi per la lavorazione del sughero, da quello appena estratto fino al tappo finito.
Ma non voglio svelarvi troppo, vi consiglio di andarci di persona ed ascoltare tutto direttamente da Pier Giacomo, che quegli oggetti li ha collezionati personalmente uno ad uno nel corso degli anni. Ha un diverso fascino sentire il suo racconto di quante agabbadore siano esistite, in che paesi e in che modo silenziosamente operavano.
Il museo Galluras è sempre aperto e per visitarlo, basta chiamare il n. 368 3376321 o scrivere una mail a: info@galluras.it